Il lungo viaggio

Fin dalla più tenera età, il mio sogno era quello di viaggiare, di vedere nuove terre e gente diversa. Questi sogni fantasiosi erano alimentati dal fatto che mio padre, capitano di piccolo cabotaggio, s’imbarcava spesso su navi della Cosulich, della Tripovich e del Lloyd Triestino, intraprendendo viaggi nell’Estremo Oriente. Da ogni porto che toccava ricevevo una cartolina e al ritorno, durante le lunghe passeggiate sul Monte Mogoron, mi parlava di quei luoghi esotici e dei loro abitanti. Nella mia immaginazione infantile esistevano solo il Giappone, la Cina e l’India mistica, non c’erano altri stati o continenti.

La guerra imminente portò fine ai miei sogni. Mio padre fu militarizzato; ogni destinazione diventava un segreto militare. Invano attendevo il postino, ma le cartoline non arrivavano più. La guerra portò molti altri cambiamenti, portò la paura delle incursioni nemiche, i bombardamenti, la distruzione e la morte. Frequentare la scuola divenne un problema; ogni mattina, infallibilmente, prima dell’inizio delle lezioni suonava l’allarme. Per noi bambini era una festa, una vacanza continua, perché non si capiva l’importanza di una propria istruzione, ma per i nostri genitori era un problema serio.

L’armistizio, firmato l’otto settembre 1943 ci portò una tregua di ventiquattro ore e poi, le operazioni belliche cominciarono di nuovo mentre la Venezia Giulia passava sotto il comando tedesco. Era una guerra diversa: si viveva nel terrore, non solo delle incursioni nemiche, ma dei rastrellamenti che venivano fatti giornalmente. Una volta la colonna tedesca decise di stazionarsi nella piazza del paese e per noi, che avevamo la casa che dava sulla piazza, furono sette giomi di paura e di incertezza.

Finalmente dopo cinque lunghi anni, la guerra finì e mi sentii piena di euforia; non più soldati in divisa, non più pane nero e giallo, non più sogni interrotti dallo stridio delle sirene o dal passo cadenzato dei tedeschi dalle scarpe chiodate.

Ancora sogni, illusioni che svanirono come bolle di sapone. Dall’occupazione tedesca si passò a quella Titina. L’Istria fu divisa in tre parti, da Pola al fiume Quieto era diventata parte della Federativa jugoslava; invece la zona che si estende dal Quieto al Timavo, ufficialmente chiamata allora il Libero Territorio di Trieste, fu divisa in due parti: “la zona A” sotto l’Italia e “la zona B”, sotto la giurisdizione jugoslava. Ancora terrore: persone deportate dalle loro case che nel silenzio complice della notte sparivano per sempre dalla faccia della terra, e forse solo le foibe mantengono, ancor oggi, il segreto della loro scomparsa.

Frequentavo allora il liceo scientifico, cercavo di assorbirmi nei miei studi, ma era difficile farlo, quando professori venivano portati in questura accusati di attività propagandistiche e obbligati a lasciare la loro terra e il loro lavoro nel giro di ventiquattro ore.

Ingenui che eravamo, si sperava che le Nazioni Unite, sentissero il grido di dolore di un popolo così provato ed oppresso. Invano il tema giuliano e dalmato veniva discusso. Sembrava quasi d’assistere ad una partita di calcio, e si passava dalla speranza alla disperazione più cupa. Giornalmente camion pieni di masserizie lasciavano la zona verso il confine, verso un destino ignoto. Gli istriani lasciavano la terra natale, solo per rimanere fedeli alle proprie origini e per mantenere intatta la propria libertà.

Alle Am-Lire seguirono i dinari, in molte scuole all’italiano si sostituì in parte lo sloveno e il croato, il bambino fu costretto a studiare in una lingua diversa dalla lingua materna, parlata da secoli dagli antenati.

Il sette ottobre 1954 fu un giorno fatidico. Un comunicato ufficiale decretò la fine delle speranze e condannò un popolo innocente all’esilio. Solo un anno di tempo per abbandonare la terra in cui da generazioni avevano vissuto i nostri padri o assoggettarsi al giogo straniero. Già da quattro anni insegnavo italiano, storia e geografia nella scuola Ottennale di Cittanova. Il mio compito, fin dal principio, fu molto difficile, perché secondo me, l’individuo è nato libero e tale deve restare, deve essere l’artefice del suo destino e nessuna convinzione politica o religiosa ha il diritto di interferire nel suo sviluppo, quindi la mano di coloro che comandavano in nome del popolo, mi colpì più volte. Fui sospesa dal lavoro, ma ogni volta ritornai, perché la mia non era propaganda politica contro il governo, ma soltanto un grido di ribellione, contro i diritti civili che giomalmente venivano calpestati.

Anch’io come altri 350.000 presi la via dell’esilio e mi trovai con circa duemila persone nel Campo Profughi di Campo Marzio, una piccola area ristretta, un magazzino diviso da tramezzi che formavano piccoli “Box”. Letti a castello, un chilometro di strada per pranzare ed un altro per cenare, prima colazione: cosa del passato. Quello che mi sostenne in quei venti mesi di campo profughi, fu la fede e la speranza di un avvenire migliore.

Avevo già un bambino di due anni e mezzo, e fu il primo a soffrire i problemi creati da un costante contatto con altri bambini e passò da una malattia all’altra.

Proprio allora m’accorsi d’aspettarne un altro. Pensai d’impazzire, ma ancora una volta la fede mi sorresse. “Un bambino non richiede molto, ha bisogno solo d’amore”, dicendo ciò cercavo di convincere me stessa.

Mi dedicai ancor più al lavoro volontario che già svolgevo e notai che non ero io che aiutavo loro, ma loro aiutavano me a superare con più serenità i disagi del campo.

Il campo profughi era solo una cosa provvisoria, bisognava trovare una sistemazione definitiva, un futuro per i figli. Inoltrammo domanda di lavoro per l’Italia, domanda di emigrazione per l’Argentina, l’America, il Canada e l’Australia. Nessuno ci voleva, quello che l’emigrazione richiedeva allora, era gente dai muscoli d’acciaio, pronti a dissodare la terra, lavorare nelle fabbriche e nell’edilizia.

Quando mio marito, sul modulo, si dichiarò carpentiere fummo accettati per l’Australia, mai avrebbe dovuto partire da solo, poiché fui respinta avendo già raggiunto il quinto mese di gravidanza. Mio marito rifiutò la partenza e così quando la bambina compì sette mesi ci imbarcammo sulla “Flaminia”. Era il 26 luglio del 1957.

Il mio coraggio svanì quando la nave salpò dal porto di Trieste, vedevo il porto allontanarsi e con il cuore gonfio di pianto sventolavo la mano per salutare i miei genitori. Sebbene l’aria fosse fresca non volli scendere sotto coperta, volevo vedere per l’ultima volta il golfo di Trieste, le amate sponde istriane e il bel campanile della mia amata Pirano.

Il viaggio non fu tanto brutto, sebbene fummo divisi: uomini da una parte, donne dall’altra. Per fortuna mi fu assegnata una cabina con l’oblò, che condividevo con altre tre donne e i loro figli. La bambina aveva un lettino per sé. Un lettino fu assegnato a mio figlio, ma non essendo posto nella mia cabina, fu messo in quella, abbastanza ventilata, che il padre condivideva con altri uomini.

Quasi un mese di viaggio con due bambini non è per certo una situazione invidiabile, ma ancora una volta la solidarietà, che diventa forte nel bisogno, ci unì. Sulla nave c’era gente di diverse nazionalità: italiani, tedeschi, lituani, polacchi. La maggioranza vittime come noi di un destino ingiusto e beffardo.

Due anziani coniugi tedeschi presero in simpatia la mia bambina e poiché parlavo un po’ il tedesco si formò un’amicizia, che durò per alcuni anni, fintantoché decisero di ritornare in patria.

Nonostante avessi studiato il tedesco, il latino, il francese, lo sloveno e il greco antico non sapevo nemmeno una parola d’inglese. Sulla nave venivano impartite lezioni d’inglese da una simpaticissima signorina di Adelaide che abitava a St. Peters. Non ebbi mai la fortuna d’attendere ad un’intera lezione. Sembrava che mia figlia avesse un’antipatia speciale per quel luogo, nel mezzo della lezione cominciava a gridare come un’ossessa e l’unico modo di calmarla era di uscire.

Il primo porto australiano a cui la nava attraccò fu Fremantle. Per noi europei, era una nuova esperienza, le costruzioni basse, le casette con il giardino, le verande di legno ci rammentavano i film di cow-boys che avevamo visto da bambini, ma questa era la nostra terra, il nostro futuro.

 

Secondo scalo: Port Melbourne. Sbarcammo alle undici e trenta. Davanti a noi c’era un treno lunghissimo che avrebbe portato gli emigranti a Bonegilla.

Mio marito aveva due sorelle ad Adelaide, quindi con altre dieci persone, dirette come noi ad Adelaide, fummo lasciati al porto, in attesa di un pulmino, che ci avrebbe portati alla stazione. Le ore passavano lente, avevamo fame, sete ma non c’era nemmeno un negozio in vista. La bambina piangeva sommessamente. Invano cercavo di calmarla perché il suo pianto feriva e avrei dato qualsiasi cosa per avere una bottiglia di latte per lei. Verso le diciassette un pulmino finalmente arrivò per portarci alla stazione. Mi sentii sollevata, avremmo trovato certo del latte e qualcosa da mangiare per il bambino, che trascinava le gambe, troppo stanco per piagnucolare.

Era domenica, ed anche lì era tutto chiuso. Per raggiungere Adelaide ci volevano dodici ore. Come fare?

Mio marito era fuori di sé. Sui nostri volti era dipinta la stanchezza e una specie di disperazione. C’era una domanda nel cuore, che nessuno osava formulare ma che si rispecchiava negli occhi: “Che cosa ci riserverà questa terra?” Perché una bambina deve piangere per un biberon di latte?

Quando sul treno aprirono il bar mio marito ordinò del latte, ma servivano solo caffè e tè. Comprò cinque tazze di caffèlatte con lo zucchero e sotto lo sguardo attonito dei passeggeri versò il contenuto in una bottiglia di un litro. Nessuno parlava, ma dal sorriso ironico di molti, si capiva che lo pensavano un eccentrico, una persona da tenere alla larga e solo pochi capirono il dramma di un padre che vedeva la sofferenza, dovuta alla fame, di una bambnia di otto mesi. L’arrivo alla stazione di Adelaide ci lasciò ancor più perplessi. Nessuno ci aspettava. Per fortuna c’era un prete che parlava italiano, chiamò un taxi e diede all’autista l’indirizzo. Ci trovammo davanti ad una casa bassa, tutto era chiuso. Entrammo nel giardino, bussammo ma nessuno ci rispose. Eravamo sporchi, stanchi ed affamati.

Mio marito s’avventurò a cercare un negozio per comprare qualcosa da mangiare. I bambini sfiniti non piangevano più, si guardavano in giro spauriti e quando ritornò non vollero assaggiare niente, nemmeno le banane che a loro piacevano molto.

Davanti a quella casa dalla persiane chiuse, ci sentivamo a disagio, e quando uno sconosciuto entrò dal cancello, il nostro disagio aumentò, ma in breve tutto fu chiarito: il telegramma che avevano ricevuto fissava il nostro arrivo per il giorno dopo.

I primi giomi il ritrovarsi con i parenti portò gioia a tutti, ma bisognava trovare una sistemazione: un lavoro e una casa. Mio marito subito andò all’Ufficio di Collocamento, ma ritornò a casa, avvilito: c’era una crisi di lavoro. Ogni giorno andava all’Ufficio Lavoro, pronto a fare qualsiasi cosa, invano andava da una fabbrica all’altra chiedendo lavoro: lavoro non ce n’era. Avevamo trovato una stanza con comodo di cucina presso una famiglia calabrese, pagavamo due sterline e mezza alla settimana. Quei pochi soldi che avevamo portato con noi si dileguavano come la neve al sole: una volta comprati i letti, un armadio ed una tavola su cui mangiare, le nostre risorse erano quasi esaurite. Tipo orgoglioso – mio marito mai avrebbe chiesto aiuto alle sorelle – dovevamo tirare avanti con il poco che avevamo.

Ormai erano già passati più di tre mesi dal nostro arrivo, lavoro non se ne trovava, ricevevamo tre sterline settimanali dal governo e cercavamo di barcamenarcela.

Un giorno un signore veneto disse a mio marito che al magazzino della lana, a Port Adelaide volevano operai.

Quello fu il suo primo lavoro, scaricare e caricare balle di lane. Ormai le feste natalizie s’avvicinavano e così il 19 dicembre, dopo tre settimane di lavoro, si trovò in ferie, perché il magazzino chiudeva fino al 21 gennaio.

Quell’anno fu un Natale povero, ma lo stesso comprammo un regalino per i bambini e in un angolo della stanza da letto mettemmo un piccolo albero, con due palline e un piccolo presepio. I bambini erano felici, ma io, un po’ per la nostalgia e un po’ perché vedevo l’avvenire poco roseo, mi sentivo morire. Cercavo di mostrarmi ottimista e per non avvilire mio marito ancor di più evitavo di discutere la situazione precaria in cui ci trovavamo.

Dopo le feste mio marito trovò lavoro come carpentiere, lavorava molte ore al giorno, ma portava a casa una paga discreta: per lo meno non avevamo fame e avevamo un tetto.

Nella strada in cui abitavo non conoscevo nessuno e non parlavo con nessuno, perché non sapevo l’inglese.

Dopo nove mesi, trovammo un’altra casa, due stanze e cucina, con un giardino grande per i bambini. Non avevamo molti mobili ed anche le nostre pretese erano modeste. Mio marito lavorava molto. Spesso lo mandavano fuori città ed io restavo a casa con i bambini. Quando la necessità di parlare con qualcuno si faceva sentire, cereavo di immergermi ancor più nel gioco dei bambini, inventando nuovi approcci e nuove gare.

Nella strada in cui abitavo, avevo incontrato solo una signora italiana, ma non la vedevo spesso, perché era sempre che lavorava nell’orto o in casa. C’erano altre giovani madri, come me, ma il mio inglese era limitato, se lo leggevo capivo abbastanza, ma se parlavano non ci capivo un’acca.

Un giomo una vicina s’affacciò all’uscio, la invitai ad entrare e le feci una tazza di caffè espresso: dal viso capii che quella non era la sua bevanda preferita, perciò rimasi meravigliata, quando il giorno dopo mi invitò a bere un caffè da lei.

Questo fu il primo passo nella società australiana, le altri giovani madri mi accettarono e i miei figli cominciarono ad integrarsi con gli altri bambini.

Quando i bambini cominciarono la scuola, cercai di essere coinvolta con il “Mothers’ club” o con la “Canteen”, ma trovai che tante persone erano più accondiscendeni che gentili.

Mi iscrissi a corsi d’inglese e mi veniva più facile comunicare. Tuttavia trovai che c’era spesso una barriera, non forse contro di me personalmente, ma perché appartenevo ad un’altra comunità.

Dopo vari corsi, l’ultimo fatto al “Technology Institute”, il “Good Neighbour Council” mi mandò alla Netley Demonstration School, per far pratica d’inglese e conoscere il metodo d’insegnamento australiano.

Non trovai molto difficile abituarmi al sistema scolastico australiano, forse per il fatto che seguendo i miei bambini nello studio, mentalmente ne ero già preparata. Mentre ero alla Netley School il più delle volte ero chiamata ad aiutare qualche madre italiana quando c’erano dei problemi scolastici da discutere.

Mi trovavo più a mio agio, conobbi molti Italiani che vivevano nell’area e spesso venivano da me con una lettera o un modulo da riempire. Poiché rifiutavo ogni pagamento, spesso mi trovavo davanti alla porta di casa mia una cassettina di pomodori, o un cestino di frutta: avrei voluto rifiutare l’offerta perché non potevamo mangiare tutto, ma ogni volta che lo facevo sentivo che li ferivo nell’amor proprio.

Dopo sette anni di lavoro duro, comprammo una casa che per noi era come una reggia. Casa nuova significava nuovi vicini e nuovi sacrifici. Mi accorsi che la nostra venuta in quella strada aveva creato un po’ di curiosità; dalle tendine semichiuse guardavano il nostro trasloco. Non mi sentivo preoccupata per me, ma per i bambini, perché volevo crescessero in un ambiente in cui erano accettati non sopportati.

Dopo quasi un mese la mia vicina di sinistra mi sventolò la mano, contraccambai il saluto e allora s’avvicinò alla staccionata. Era una signora anziana, molto gentile e fu la prima a darmi il benvenuto. Ma perché aveva aspettato più di un mese? Un giorno ebbi la spiegazione: quando le avevano detto che eravamo Italiani, aveva avuto timore dell’esuberanza italiana che poteva minacciare non solo la sua vita tranquilla, ma anche quella della strada. Ironicamente pensavo: “Abbiamo passato l’esame!”. Era a pieni voti o solo una sufficienza?

Tutti questi pregiudizi mi lasciavano interdetta.

Cominciai a dare delle lezioni d’italiano e di latino, ma volevo trovare un lavoro fisso, per aiutare a pagare l’ipoteca che avevamo sulla casa.

Ci furono molte obiezioni con le mie qualifiche, anche perché avevo studiato nel Territorio Libero di Trieste e molti mi chiedevano quale fosse la mia nazionalità.

A volte mi sentivo scoraggiata, ma continuavo con le lezioni private, andavo a tradurre per genitori che avevano problemi scolastici con i loro figli, studiavo l’inglese, ma non vedevo un futuro.

La scuola cattolica vicino a casa mia, cercava un insegnante d’italiano per due ore settimanali. Inoltrai domanda di lavoro, ebbi un’intervista, ma la direttrice mi fece capire che voleva un’australiana che parlasse l’italiano. Spiacente, ma non potevo aiutarla!

Ero così disillusa, avevo bisogno di soldi e pensavo che forse era meglio trovare lavoro in una fabbrica o un negozio alimentare, ma mio marito non volle saperne niente. Sempre spronata da lui inoltrai molte domande di lavoro. Il 6 dicembre 1973 ebbi tre interviste: all’”Education Department”, al “Kilmara College” e al “Loreto College”.

Pensavo che fosse futile andarci. Chi voleva un’insegnante italiana? Ci andai solo per chiudere ogni discussione con mio marito e porre fine a queste domande ed interviste che mi lasciavano non solo depressa, ma creavano in me un senso di inferiorità e una ribellione contro il sistema in genere.

Con mia sorpresa mi offrirono tutti e tre i lavori. Non potevo crederci! Accettai il lavoro al Loreto College, poiché avevo sentito nella Madre Superiora, Mother Dymphna, e nella direttrice, Suor Christine, un senso d’interesse non solo per la materia che avrei insegnato, ma per me come persona. Ormai la scuole si chiudevano, avrei cominciato l’anno prossimo. Fu un mese pieno di tensione interna, di domande senza risposte e il primo giorno di scuola mi trovai, penso, più impaurita delle mie studentesse.

Durante il mio primo mese d’insegnamento non potevo raccappezzarmi perché trovai nelle suore e in molti altri insegnanti un aiuto che mai prima avevo sperimentato. Non mi sentivo più tollerata, ma accettata per quello che ero.

La nuova Direttrice, Suor Diaan, fece tutto il possible per rendere facile il mio inserimento nella scuola e trovai le mie allieve volenterose d’imparare una lingua straniera.

La filosofia del Loreto College, una filosofia cristiana, aperta e basata sui valori e sul rispetto individuale mi si addiceva e con l’aiuto di Suor Diaan mi fu facile aiutare la comunità italiana della scuola. Per molti, la lingua parlata a casa e quella parlata a scuola era una barriera, che nell’interesse delle studentesse bisognava abbattere e creare in loro un senso di orgoglio non solo verso i genitori, ma anche verso le loro origini.

Con l’aiuto di Suor Diaan e della Madre Superiore, ebbi l’opportunità di formare un comitato e un “Club di madri italiane”, non per dividere la comunità, ma per formare un ponte di comunicazione tra la famiglia italiana e la scuola.

Per molti anni le madri italiane collaborarono con molta generosità ed ancor oggi, dopo tanti anni, teniamo a Loreto “La serata italiana” a cui partecipano le stesse donne, ormai nonne, piene di orgoglio nel vedere, sul palcoscenico, non più le loro figlie ma le loro nipoti. Ormai sono passati ventisette anni, ma ancor oggi insegno a Loreto, perché la sua filosofia, basata sui principi di Mary Ward è stata una vera ispirazione per me.

Qualche volta, la nostalgia per la mia patria perduta si fa sentire acuta. La vita dell’emigrante è dura, ma la vita del profugo-emigrante è ancora più dura, perché l’emigrante ha sempre un focolare che l’aspetta, mentre il profugo non ha niente, perché gli hanno rubato perfino le tombe in cui i suoi antenati riposano da secoli.

Nives Sain