Nella maggior parte dei casi, nel campo della ricerca, succede che si hanno grandi idee, ma niente fondi. Ecco, a me, nel lontano 2011, è capitato esattamente il contrario. Vinsi una borsa per svolgere il dottorato presso l’Università di Milano Bicocca, quindi avevo fondi per quattro anni, ma, pur ritenendo il mio progetto molto interessante, non apparteneva all’ambito di nessun potenziale supervisor. Per farla breve, mi ritrovai a fare ciò che noi Italiani siamo molto bravi a fare: mi riciclai, del resto avevo molti interessi diversi, si trattava solo di capire come ridirezionarli. Fissai diversi appuntamenti, ma quando conobbi quello che sarebbe stato il mio futuro mentore, capii al volo che era la strada giusta: senza tanti giri di parole, mi disse subito che una priorità per il suo laboratorio era quella di mandare uno studente per 12 mesi in Australia, presso il laboratorio del prof. Moseley. Ora, facciamo un passo indietro e spieghiamo brevemente perché questo pesò così tanto sulla mia scelta. Per me lavorare con Lorimer Moseley era come per un giovane tennista avere la possibilità di giocare con Federer – e non solo una volta, ma per un intero anno! Essendo una persona molto riflessiva, mi concessi comunque qualche giorno per riflettere, sebbene, in cuor mio, sapessi già la risposta. Quando ne parlai con la mia famiglia, tutti capirono al volo la portata dell’offerta e, pregando che il tempo tra quell’annuncio e la mia partenza passasse molto lentamente, appoggiarono la mia scelta. Il mio ragazzo all’inizio sembrò entusiasta, ma più il tempo passava più sentivo che non aveva recepito fino in fondo il significato e gli eventuali sviluppi di questa scelta. Dopo pochi mesi dall’inizio del dottorato fu chiaro ad entrambi che stavamo imboccando due strade diverse: io non sarei mai rimasta nella nostra piccola cittadina incastonata tra le Prealpi piemontesi e lui non sarebbe mai salito su un aereo per gli antipodi. Un’amica mi disse che stavo firmando un contratto con l’infelicità, ma io non l’ascoltai e proseguii per la mia strada, con coraggio e con paura. Il tempo, a dispetto delle speranze dei miei familiari, volò e a otto mesi dalla mia partenza conobbi Davide. La mia ricerca stagnava in Italia, non avevo molti stimoli e non vedevo l’ora di partire per dare un nuovo impulso ai miei lavori. Fui molto chiara con lui, credo fin dal primo appuntamento. Era il 20 aprile di esattamente quattro anni fa mentre scrivo queste righe. Mi disse ‘Vengo anche io’. La partenza era fissata per l’inizio di febbraio e prima di partire mi chiese di sposarlo. Niente mi era mai sembrato così semplice nella mia vita. Partimmo con tanti dubbi, ma senza paura, forti l’uno della presenza dell’altro. Davide, che è un allenatore di calcio professionista, trovò lavoro dopo un mese dal nostro arrivo, mentre io iniziavo ad ambientarmi – la lingua fu forse l’ostacolo più grande per entrambi, ma piano piano ci saremmo adattati anche a questa difficoltà. Dopo soli due mesi di permanenza, Lorimer mi chiese se volevo restare due anni invece di uno e tra me e Davide bastò uno sguardo: Adelaide ci aveva conquistati. Alla fine del mio dottorato (cioè alla fine di quei due anni), Lorimer mi offrì un contratto ed eccoci ad oggi. Per me Australia vuol dire tante cose: vuol dire sentirsi rispettati ed apprezzati per le proprie capacità, vuol dire vedere anni di studio, di rinunce e di sacrifici finalmente dare i loro frutti. Vuol dire avere un marito (sì, alla fine ci siamo anche sposati!) che comprende nel modo più profondo e sincero le mie occhiaie da troppo tempo davanti a uno schermo, i miei mal di schiena da troppe ore seduta, le mie frustrazioni quando scrivo un articolo che viene rifiutato. Un marito che è fiero di fare la spesa, di prepararmi un piatto caldo e di portarmelo, in sella alla sua bicicletta, tutti i sacrosanti giorni al lavoro. Così non mangio schifezze, così pranziamo insieme. Un marito che quaggiù ci è venuto con me e non per me. Perché questa è la nostra storia, non solo la mia.
May 2016