Isabella Bracco

Nata gia’ espatriata in quel di New York negli anni ’70 (purtroppo non ricordo nulla), non ho mai smesso di sentirmi stretta quando non mi muovo.

Ho studiato Scienze Naturali a Milano con piu’ passione che diletto, risultati mediocri ma I voti li prendevo tutti, sporchi e subito, senza badare molto alla media.

Il sogno era quello di tutti, nella mia classe, viaggiare, stare nella natura, scoprire, avventure e mai un tacco alto.

Partii per la Tanzania per gestire dei gruppi di “ecovolontari”, avevo 25 anni. E tutto da imparare.

Una volta in Tanzania, mi son sentita un bel po’ inadeguata a spendere energie per difendere il leone, quando alla genta mancava l’acqua, la scuola, ma in compenso avevano tantissimi buchi nei calzini (per dirla alla leggera).

Siccome erano gli anni dell’avvento di internet e per visionare una pagina web ad Arusha ci mettevi, giuro, almeno 5 minuti, ci misi 2 mesi a trovare in rete l’occasione perfetta per me: un master, a Milano (la mia citta’) gratis (la mia parola preferita) in “Utilizzo delle acque e Gestione del Territorio in Paesi in via di Sviluppo”.

Era il secondo anno che lo promuovevano alla Bicocca e riceveva fondi dalla Comunita’ Europea.

Mi ci fiondai direttamente dalla Tanzania e fu l’anno piu’ bello della mia vita.

Anzi i 15 anni piu’ belli della mia vita. Il master terminava con uno stage, e io fiu mandata in Tajisitan. Li’ mi assunsero al progetto e spesi un anno e mezzo. Alla fine del progetto mi spostai in Tibet per altri due anni e mezzo. Ero li’ durante le olimpiadi e forse pochi ricordano che ci furono delle sommosse a Lhasa. La notizia non usci’ agilmente pero’ dalla Cina e pochi giornali la riportarono.

Dopo il Tibet (dove tra le altre cose incontrai il marito, spagnolo), ci spostammo in Tanzania (yep, again) dove ci fermammo 5 anni e un poco piu’. In quel periodo ebbi la mia prima figlia che oggi ha 8 anni ed e’ la persona piu’ resiliente che ci sia…in altre parole: non l’abbatte niente.

Andammo via dalla Tanzania per Haiti, un progetto post terremoto, ma l’esperienza non fu delle migliori. Di solito lavoravamo in quello che si chiama “sviluppo” che e’ molto diverso dall’ “emergenza” come appunto e’ un progetto post terremoto.

Ci spostammo quindi in Nepal, dove passammo altri 5 anni. Appena atterrati mi ricordero’ sempre che ci dissero “sapete? Qui e’ sismico e l’ultimo grande terremoto fu 100 anni fa…ne stiamo aspettando un altro” e io pensai “si’, figurati se…”

E infatti il 25 aprile 2015, giorno del terremoto di Kathmandu, eravamo per strada dopo aver mangiato fuori. Noi coi bambini (si e’ aggiunto un secondo figlio nel frattempo).

Ci sarebbe un libro da scrivere solo sui giorni del terremoto, e quindi saltero’ l’esperienza dicendo che alla fine ho lavorato di nuovo in un progetto di emergenza.

Ci fermammo un altro anno. Era doveroso non lasciare lo staff, dopo il terremoto, ad affrontare tutto quello che stava succedendo a loro e alle loro famiglie. Tuttavia era chiaro che quella parte della nostra vita doveva finire e dare ai nostri figli la possibilita’ di una vita piu’ agevole, un po’ meno estrema, forse meno avventurosa ma aperta a piu’ possibilita’.

Dove?

Giuro che ho stilato la lista di tutti i paesi al mondo e sono andata per esclusione: fuori i paesi dove non e’ possibile ricominciare da zero a quasi 40 anni, fuori quelli con guerre, ebola, colera, malaria.

Fuori i paesi pericolosissimi, quelli dove la lingua e’ un problema, fuori quelli con presidenti pazzi o tiranni scellerati.

Ne restavano pochini. Incluso Citta’ del Vaticano. Scegliemmo l’Australia.

Dicemmo addio ad avventure, elefanti che ci facevano fare tardi al lavoro, viaggi incredibili su per montagne deserte o foreste fangose. Addio al Kilimanjaro all’alba, ai mosaici di Lenin grandi come palazzi, addio ai monsoni, ai deserti, alla savana. Addio ai caraibi, all’Himalaya, alle danze africane e alle citta’ della via della seta…

Pero’ trovammo Adelaide.

Gennaio 2020