Sono nata a Pordenone, in Friuli, pochi anni dopo che, durante la guerra, i miei genitori avevano lasciato la loro città nativa di Fiume (ora non più italiana ma croata). Optando di non ritornare a Fiume, fecero parte dell’esodo di massa dei profughi giuliani-dalmati dai territori della Dalmazia e Venezia-Giulia, che a quel tempo l’Italia cedette alla Jugoslavia.Trovandosi già spostati nel caos del dopo-guerra, decisero di far un passo più lungo ed emigrare in un altro paese. L’opportunità si presentò tramite l’Organizzazione Internazionale per Profughi gestita dalle Nazioni Unite. L’America era la loro destinazione preferita, l’Australia quella disponibile.
Avevo neanche quattro anni quando arrivammo qui nel 1951. Dopo alcuni mesi nel campo per immigranti a Bonegilla ci sistemarono ad Adelaide dove trovammo altri giuliani-dalmati con cui stabilimmo forti legami d’amicizia; un importante sostegno morale durante quei primi anni incerti, legami che in molti casi rimangono finora e sono forse più forti di quelli con i familiari in Italia.
Completai Ie scuole elementari a Mt Carmel Primary School e il liceo a Mary McKillop College. A quei tempi tutte e due queste scuole erano gestite dalle suore di St Joseph fra le quali c’erano delle bravissime insegnanti che influirono molto positivamente sulla mia educazione. Furono però i miei genitori, particolarmente mio padre, che incorraggiavano la mia ambizione di progredire e proseguire gli studi universitari. Completai una laurea in lettere e successivamente una seconda laurea in pedagogia all’universita di Adelaide; poi cominciai il mio primo lavoro come insegnante di liceo.
Durante la mia infanzia i miei, particolarmente mia madre, nutrirono sempre la mia identità italiana. Fino al loro ultimo respiro mi hanno parlato in italiano, anche se fra di loro parlavano in dialetto. Da piccola mi insegnarono a leggere e scrivere in italiano tramite le numerose lettere che si scambiavano con i parenti in Italia. Soffrendo moltissimo di nostalgia, mia madre mi parlò sempre della famiglia, della casa e della vita a Fiume e in Italia. Durante le frequenti visite degli amici ascoltavo con grande interesse le lunghe discussioni di storia, politica e cultura che giravano attorno la tavola, discorsi che trovavo affascinanti e molto più interessanti di qualunque cosa sentissi al di fuori nell’ ambiente australiano. Quindi da giovanissima formai l’impressione che la mia cultura d’origine era molto più ricca ed interessante di quella australiana. Di consequenza aggiunsi alla nostalgia di mia madre, che assorbii emotivamente, il mio proprio desiderio di ritornare in Italia.
Il mio primo viaggio in Italia all’eta di diciasette anni fu stupendo e nello stesso tempo traumatico. L’Italia era ancora più meravigliosa di come la immaginassi ma rimasi molto male nel trovare che il mio ritorno non era quello che mi aspettavo. Mi sentivo una straniera. Nonostante i legami culturali e linguistici capivo che dopo gli anni d’infanzia passati in Australia ero molto più australiana che italiana. La mia identità italiana, fino allora sicura, fu scossa.
Rientrai in Australia con la stessa nostalgia, ora aumentata da una sensazione di essere esclusa dal paese che consideravo la mia patria. Di consequenza per molti anni non ritornai più in Italia.
Conseguita la laurea, feci l’insegnante di liceo per un breve periodo dopo di che nacque mio figlio e rimasi a casa per i succeivi due anni. Quando ripresi il lavoro cominciai una nuova carriera nell’ istituto TAFE come insegnante di lingua inglese agli immigranti.
Questo lavoro diventò la mia professione e per circa trent’ anni ho insegnato la lingua e la cultura di questo paese agli immigranti ed ai profughi provenienti da varie parti del mondo. Fu l’esperienza comune dell’immigrazione che mi attirava a questa gente e a questo lavoro. Trovai che dovunque provenissero, paesi diversi come il Cile, il Vietnam, la Cina, la Polonia e qualunque fosse la loro professione, operaii specializzati, lavoratori agricoli, studenti, professionisti qualificati, ognuno di loro attraversava l’esperienza unica e indimenticabile dell’immigrazione. Ognuno di loro affrontava le difficoltà, le spinte e i cambiamenti che l’immigrazione impone ad ogni immigrante.
Mi sentivo previlegiata per essere in grado di assisterli e provavo una grande empatia per il loro cammino. Si rispecchiavano in loro le fasi di quel cammino che avevo già attraversato. Questa esperienza mi aiutò a comprendere e guarire la mia propria identità fratturata. Trovai una soluzione nel lasciare andare la nostalgia ed il senso di smarrimento nell’ accettare che l’immigrazione è un viaggio senza fine. Una volta imbarcati non c’è via di ritorno. Uno sopravvive alle difficoltà, affronta le spinte e si adatta ai cambiamenti ma la tensione tra la vecchia e la nuova identità continua con la diminuzione inevitabile della prima per fare posto alla nuova.
Una volta raggiunta questa soluzione cominciai a vedere i lati positivi: il grande coraggio, l’enorme abilità e la capacità di recupero che l’immigrazione richiede, la soddisfazione personale di avere superato lo sradicamento della propria vita e poi la risistemazione in un ambiente diverso, la doppia prospettiva che dona un’ esistenza bilingue e biculturale ed infine la ricompensa di potere accedere ad una lingua e una cultura di due paesi diversi, la ricchezza di una vita vissuta tra due identità culturali.
Alla fine ritornai in Italia anche molte volte, sempre con grande affetto per il paese e i miei familiari. Ora questi viaggi sono sempre esperienze felici e positive. Mi sento chiaramente australiana e nello stesso tempo sento i legami con il mio paese nativo più forti che mai. Questo mi dà un gran senso di soddisfazione.
Qualche anno fa ho lasciato il mio lavoro d’insegnante al TAFE e ho iniziato un nuovo lavoro al Cancer Council South Australia dove ho l’incarico di dare informazioni riguardo la prevenzione del cancro alle donne nelle comunità di immigranti. Trovo interessante che il mio lavoro nel campo dell’immigrazione continui ancora; è un campo dove mi sento a mio agio e dove credo di contribuire al massimo. In questo ruolo attuale spesso mi capita di essere invitata a dare informazioni sulla prevenzione del cancro in lingua italiana. Sono felicissima di trovare che in queste occasioni, con un po’ di ripasso, la mia lingua materna è ancora viva e in buona salute e che il mio amore per la mia cultura d’origine è sempre forte.
Giuliana Otmarich
Ottobre 2007